Usare le parole giuste: una forma di rispetto.

Un glossario LGBTQ+ per cisgender eterosessuali.

Rossella Rocco Corallini
8 min readSep 17, 2020
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti” — Palombella Rossa
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti” — Nanni Moretti, Palombella rossa (1989)

L’episodio di transomofobia dello scorso 12 settembre ha evidenziato ancora una volta quanto gli organi di (dis)informazione facciano un uso dozzinale e sbagliato di nomi e pronomi per riferirsi ad una persona transgender. Forse per ignoranza, forse in malafede.

Oggi, nel sempre più digitalizzato 2020, accettare una comunicazione superficiale, falsata e deviante produce effetti perversi: rappresenta una completa mancanza di rispetto e contribuisce una volta di troppo ad amplificare la confusione rispetto ad una tematica, quella LGBTQI+, già di per sé molto delicata.

Ho pensato quindi che potesse far comodo un breve glossario per non farsi più cogliere impreparati quando si parla di questi argomenti.

Usare le parole giuste comporta parecchi vantaggi:
1) dimostri rispetto e riconosci dignità nei confronti di chi chiede — e giustamente — rispetto e dignità (che non dovrebbero mancare nei confronti di nessuno, in nessuna circostanza).
2) Eviti di restare insonne fino alle 3 di notte pensando e ripensando a quella gaffe tremenda che ti potevi anche evitare (parlo per esperienza).
3) Contribuisci a diffondere conoscenza: sono abbastanza sicura che la maggior parte delle persone sbaglia in buona fede (ma se sbagli e scrivi su una testata giornalistica sei doppiamente responsabile).
4) Anche l’uso corretto delle parole ha un valore politico: usare la giusta terminologia in ambito LGBTQI+ è anche una presa di posizione. La potenza del linguaggio sta anche in questo.
5) La consapevolezza, intesa come “conoscenza acquisita”, è una forma di potere: contro l’ignoranza, la demagogia, la superficialità.

Cerco di renderla il più semplice possibile: questa “guida” è pensata più che altro per le persone eterosessuali e cisgender (cis-che? calma, ci arriviamo) che vogliono schiarirsi le idee.
Se ti consideri alleat*, vai avanti a leggere (e sì, inevitabilmente qui userò gli asterischi).

Iniziamo a fare una distinzione generale.

Il sesso biologico: si riferisce alle caratteristiche anatomiche con cui nasciamo.

Il genere: ha una valenza psicologica e culturale. Veniamo cresciuti secondo modelli culturali e sociali che determinano i comportamenti socialmente accettati da parte di maschi e femmine (esempio banale: le bambine giocano con le bambole, i bambini con le macchinine).
Non sempre il genere assegnato alla nascita corrisponde alla percezione che una persona ha di sé. Per questo più che di genere si dovrebbe parlare di identità di genere.

L’identità di genere: corrisponde al genere in cui una persona si identifica, indipendentemente dal sesso biologico.

L’orientamento sessuale: definisce l’attrazione sessuale, romantica e affettiva prevalente verso una certa tipologia di persone:
- eterosessuale: attrazione verso il sesso biologico opposto,
- omosessuale: attrazione verso lo stesso sesso,
- bisessuale/pansessuale: attrazione nei confronti di entrambi i sessi, o per meglio dire: a prescindere dal sesso/genere dell’altra persona,
- polisessuale: una persona attratta da diversi generi, ma non tutti,
- asessuale: una persona che non è attratta sessualmente verso alcun sesso/genere.
Le distinzioni sono sempre così nette? Certo che no!
Ognuno di noi (che ce ne rendiamo conto o no) nel corso della vita può avere un’oscillazione delle proprie attrazioni, anche solo a livello di fantasie.

Scala di Kinsey
La scala di Kinsey è del 1948 (da allora è stata arricchita)

È un po’ complicato, vero?
Questo perché siamo cresciuti in una società che ci ha abituati a vedere tutto o bianco o nero, senza tutte quelle gradazioni di grigio che rendono la vita molto più interessante.
E anche perché, diciamo la verità, la semplicità ci tranquillizza, la semplicità è confortante. Le etichette ci fanno trovare le cose più facilmente nel caos della nostra esistenza!

Sandra Milo
Questa sono io che cerco di spiegare come non farsi gaffe senza farmi una gaffe a mia volta.

Andiamo avanti.

Parlando di sesso biologico, la distinzione corretta dovrebbe essere tra i maschi, le femmine e le persone intersessuali (o intersex), termine ombrello per indicare tutte quelle persone che dal punto di vista anatomico non sono definibili né maschi né femmine.

È anche per questo che è importantissimo parlare di identità di genere: per anni le persone intersex sono state sottoposte a mutilazioni sulla base di decisioni prese da medici e genitori, che decidevano quale sesso (e genere) assegnare ad un* bambin* nat* con delle “anomalie” che la nostra mentalità binaria sente il bisogno di risolvere. Parlo al passato, ma sto sbagliando: succede tutt’ora.
Solo in tempi recenti si sta iniziando a capire che queste persone hanno diritto di esistere così come sono: crescendo capiranno da sole in quale genere si identificano (sempre che vogliano farlo).

Il genere non è binario: è uno spettro.

Una cosa importante da capire e da interiorizzare è che non sta a noi stabilire l’identità di genere degli altri.
Verrà un giorno, io mi auguro, in cui smetteremo di dare per scontato il genere della persona con cui stiamo interagendo.
Ma, fino ad allora, la cosa migliore da fare è ascoltare e rispettare chi ci sta intorno.

È a questo punto che la proprietà di linguaggio assume importanza.
Ci sto arrivando. Prima dobbiamo chiarire un altro paio di cose.

Le definizioni di identità di genere sono convenzionali, a volte temporanee, ma per il momento sono queste:
- cisgender: il sesso biologico e l’identità di genere corrispondono (per esempio, una persona con attributi sessuali maschili si identifica con il genere maschile). Con questa definizione si intendono uomini cisgender e donne cisgender.
- transgender: l’identità di genere non corrisponde al sesso biologico (per esempio, una persona con attributi sessuali maschili si identifica con il genere femminile oppure con un sesso intermedio, tra maschile e femminile).
- transessuale: alcune persone transgender decidono di sottoporsi, completamente o in parte, alla transizione da un sesso all’altro. In questo caso possono decidere di non definirsi transgender ma uomini o donne.
- non binary gender, o genere non binario (queer): una persona non si identifica secondo la modalità binaria di genere, o meglio non riconosce l’esistenza di soli due generi.
Sotto la definizione di non binary gender rientrano le persone genderfluid e genderqueer:
- genderfluid: una persona si identifica, in modo fluido appunto, nel genere maschile e nel genere femminile.
- genderqueer: sono le persone che rifiutano di identificarsi nello stereotipo del sistema binario di genere e si creano una propria identità che mischia caratteristiche maschili e femminili, in assoluta libertà. Si definiscono anche, in modo provocatorio, genderfuck, perché sanno di confondere le idee e lo fanno di proposito.
- agender: è una persona che non si identifica né con il genere maschile né con quello femminile.

In tutti questi casi — ripeto: in tutti — l’orientamento sessuale può variare nella gamma da asessuale a eterosessuale a omosessuale, in ogni sfumatura possibile.

Lady Oscar, icona queer
Lady Oscar, icona queer

Tutto chiaro fin qui?

Ed eccoci a chiudere il cerchio: finalmente parliamo di come usare le espressioni giuste nel momento giusto.

A questo punto dovrebbe esserti chiaro che tutto gira intorno all’identità di genere: ognuno ha la sua (o non ce l’ha) e va rispettata.

Mi rendo conto che spesso non è possibile saperlo a priori, mentre parli con una persona che magari non conosci, ma già con queste basi dovrebbe essere intuitivo cosa bisogna fare.

La regola generale è abbastanza semplice: ci si rivolge ad una persona usando articoli, pronomi e aggettivi declinati secondo la sua identità di genere.
Schematizzando:
- ci si rivolgerà al maschile nei confronti di una persona che si identifica con il genere maschile,
- ci si rivolgerà al femminile nei confronti di una persona che si identifica con il genere femminile,
- un po’ più complicato è il caso delle persone non binarie, perché la lingua italiana non ha una forma neutra. Molti linguisti ci stanno lavorando, ma ci vorrà tempo. Per il momento forse la cosa più sensibile da fare è chiedere a* dirett* interessat* quello che preferiscono. Nelle forme scritte, come avrai notato, ci si arrangia con perifrasi, asterischi o la @; insomma, per adesso si fa quel che si può!

Nel caso delle persone transessuali (che hanno iniziato o finito una transizione, cioè un percorso di riassegnazione del genere), è doveroso rispettare il loro genere di arrivo e riferirsi a loro come uomini e donne nel modo corretto:
- un uomo transessuale: è nato donna, si riconosce nel sesso maschile, e ci si rivolge a lui al maschile (FtoM = female to male, in inglese);
- una donna transessuale: è nata uomo, si riconosce nel sesso femminile, e ci si rivolge a lei al femminile (MtoF = male to female).

Queste persone inoltre scelgono un nome che rispecchia la loro identità: devi usare quel nome.
Il “vecchio” nome (o dead name) appartiene ad una persona che non esiste più: continuare ad usarlo è una profonda mancanza di rispetto.
E neanche si deve dire: “Giulia, che era Giulio”. No: Giulia è Giulia, e basta.

Chiariamo un ulteriore punto.
Il percorso di transizione segue diverse fasi (ormoni, interventi chirurgici di varia complessità, ecc.) e decidere se iniziare o completare o fermarsi ad una delle fasi intermedie di questo percorso è un fatto privato, intimo, personale.
Sono pochissime le circostanze in cui è rilevante chiedere una persona “a che punto è” nella sua transizione: il mio consiglio è di farti gli affari tuoi (che poi se ci pensi è quasi ovvio: ti verrebbe mai in mente di chiedere a chiunque cos’ha nelle mutande? No, vero? Non c’è bisogno di essere morbosi!)
Nel dubbio, meglio usare il termine transgender, che è più generico (e mai un trans/una trans, piuttosto: una persona trans).

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Coming out VS outing

Questo è un altro equivoco che noto spesso.

Coming out o fare coming out: una persona decide liberamente di dichiarare il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere. È una decisione presa con consapevolezza.
Tra l’altro questa dichiarazione può essere fatta a vari livelli: nella cerchia ristretta della famiglia, degli amici o pubblicamente.

Outing o far fare outing: è la rivelazione dell’orientamento sessuale di un’altra persona. Ha a che fare con la violazione della privacy e spesso con la calunnia. È una violenza nei confronti della persona. che si vede costretta a “venire allo scoperto”.
Se poi una persona ha fatto coming out per esempio solo con gli amici non è detto che voglia (per qualsiasi ragione) che lo sappiano tutti. Tienine conto.

La parola è il messaggio.

LGBTQIA+: la battuta più frequente è che questa comunità composta da una moltitudine di individui diversi ha bisogno di tutto l’alfabeto per non escludere nessuno.
Si tratta di inclusività e di libertà di autodeterminazione.
Le parole sono importanti: perché veicolano messaggi ma veicolano anche intenzioni.
Parafrasando Marshall McLuhan, la parola è il messaggio.

©Jasmin Sessler

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Rossella Rocco Corallini

Neonata copywriter, osservo la vita come l’umarell i cantieri.